Spazi come musei attivi

Può l’arte vivere la sua libera avventura nel mondo, al di fuori degli “schemi” precostituiti? e presentarsi come supporto creativo per una rinnovata socializzazione?

Se pensiamo che tutti gli esseri umani siano accumunati dal profondo desiderio di comunicare e partecipare il proprio universo interiore; certo si può pensare alla pratica dell’arte come una possibile via dove canalizzare quel senso artistico comune, che lontano dagli schemi oggettivi assume ugualmente forma di raccolta espressiva della gente, trovando in questa attività  una soluzione a problemi personali spesso di natura psicosociale.

Se l’arte è specchio del proprio tempo, ecco allora, tutto ciò è quanto succede oggi nelle diverse aree di notevole rilevanza artistica. Mi riferisco alle grandi capitali del mondo e non solo, poiché è una visione segmentata praticata ovunque. Ad esempio in citta come NY tutto ciò non è vissuto separatamente dagli artisti professionisti, che liberamente aderiscono e promuovono queste iniziative spiegando modi, tecniche e temi da loro prediletti. Artisti professionisti che condividono gli spazi con gli utenti, creando non contrasti ma armonie dialettiche, incontri che creano spazi speciali attivi che sottolineano la emozionalità delle opere.

Siamo ben coscienti che non tutti quelli che partecipano a questa ricerca espressiva sono artisti (anche se sono in molti a presentarsi come tali) ciò che conta è la liberata intenzionalità espressiva dei partecipanti catalizzati nel loro incontrarsi in un luogo chissà, non propriamente idoneo per l’arte, al di fuori della psichiatria ufficiale delle accademie e della critica d’arte ufficializzata.

Centri di terapia, musei attivi, si propongono come spazi aperti polifunzionali per assemblee convegni incontri sulle funzioni riabilitative della creatività, spazi dunque concepiti come luoghi di feconda invenzione, in grado di veicolare idee atte, e spezzare la sorda parete del silenzio che spesso si crea attorno alle disabilità mentali.

Non sono spazi sacrali in cui si ammirano opere in silenzio, perche sono nati con l’intenzione che alla visione dei lavori sposti si “attivino” incontri con i giovani che studiano, con le persone che lavorano, come con tutti coloro che hanno una sensibilità nella percezione della vita. In altri termini si tenta di fornire una verbalizzazione attorno alle indicazioni e agli indizi delle opere visive, in modo da sviluppare una lettura personale che ci induca al confronto con diversi linguaggi espressivi.

Luoghi che possiamo definire spazi inconsapevoli poiché nel fare “arte” esiste una inconsapevolezza, sulla forma e sul contenuto che l’artista si propone di raggiungere nell’opera è contenuto anche “il quid” che sfugge all’operatore o all’artista stesso che parla al di la del suo significato estrinseco, a tutti coloro che la osservano e che la osserveranno. Questa è la parte inconsapevole, il segreto dell’opera, il suo mondo interiore, ciò che spinge il nostro sguardo a tornarvi volentieri. Non si tratta soltanto di un piacere: infatti, oscuratamente, percepiamo che l’opera può dar voce alla sua verità e raccontarci del mondo, forse delle sue origini.

L’opera è qualcosa in più rispetto allo svelamento interiore dell’artista o, della persona che si esprime in quanto ogni esperienza di verità  cambia la nostra percezione delle cose e modifica il nostro vissuto.

Inoltre se il destino dell’uomo fosse considerato un sentiero inconsapevole nella sua essenza, questo spazio si propone come metafora di tale sentiero che può avere, per traguardo, la consapevolezza.

Spazi che non possono prescindere dal luogo particolare in cui essi si trovano, spazi istituzionali che cercano nuovi parametri culturali con cui ridefinirsi.

Spazi la cui funzione è quella di mostrarsi, cioè di attivare un percorso che li sottolinei come spazi vivi, punti forti di scambio fra la creatività degli artisti professionisti e quella dei visitatori, dove le opere d’arte lungi dall’essere feticci da ammirare passivamente.

Ciò che da impulso alla creatività dell’individuo è la relazione che l’opera d’arte può avere con la propria verità o con la conoscenza. In quanto schiude una conoscenza, l’artisticità non solo apre un mondo, ma ne crea uno nuovo, trasformando e cambiando la nostra percezione, poiché questa è sempre qualcosa in più dello svelamento del mondo interiore dell’ artista. Creare un nuovo mondo significa creare un nuovo linguaggio questa è l’autentica apertura dell’opera d’arte.

Ma allora come possiamo immaginare che una persona magari poco equilibrata possa sottrarsi a questo processo? E veramente possibile che egli crea le sue opere secondo un linguaggio diverso e distinto da quello dell’artista?

Io credo che il processo è identico nel senso che ognuno crea, attraverso la sua opera il proprio linguaggio e che attraverso tale linguaggio, comunica la propria esperienza modificando anche il nostro mondo, mentre “ascoltiamo” ciò che egli ha da dirci.

In questi spazi si riuniscono dunque opere di artisti di ogni livello e condizione perfettamente sani o poco equilibrati, o che hanno avuto deficit psichici, naturalmente opere non identificate con il nome.

Uno straniamento che permette di osservare nel profondo un opera in sè senza interrogarsi sugli autori e obbligare questi a motivare le loro scelte artistiche.

È ovvio che lo sviluppo di questi spazi intende presentare una collezione d’arte psico patologica, simile all’idea di Jean Dubuffet che dava la massima importanza alle manifestazioni creative che l’artista francese andava ricercando, con perseveranza e attenzione negli ospedali psichiatrici, nelle prigioni, negli internati, nelle libere espressioni dei popoli primitivi, cioè in quelle secche     culturali o alienate della società.

La sensazione che si ha in questi nuovi spazi, è il tentativo di non separare l’espressione artistiche, poiché anche quelle degli artisti non professionali sono altrettanto valide e feconde e vanno mostrate, esposte alla stessa stregua dell’arte cosi detta “normale”.

Spazi che vogliono insomma essere luoghi di colta meditazione e di confronto con la realtà esterna rendendo più permeabile quel muro d’aria cosi denso e opaco che circonda tutti noi, racchiusi nelle nostre solitudini, nelle nostre certezze o nei nostri interessi.

Oltrepassare questo muro d’aria significa anche confrontarsi con la realtà del mercato artistico. Al contrario di quanto si possa pensare sono luoghi liberati dalla oscura oppressione dello spettro della follia. Seguendo questi presupposti questi spazi dovranno porsi come unita contestuale, culturale e differenziata di fronte all’operare di persone che possono trovare in forme e materie artistiche idonee per conquistare quel processo comunicativo che altrove generalmente e preclusa agli artisti non professionisti.

Se l’arte è considerata un sistema per trasformare le relazioni nel mondo, questi spazi nascono come sistema energetico per trasformare “isole solitarie” in “arcipelaghi comunicativi”.

Francesco Santoro