Per governare, la politica deve regolare il diritto e la forza, se non funzionali l’uno all’altra deve almeno renderli compatibili. In Venezuela ormai da tempo non ci riesce. E la loro crescente divaricazione spacca i 33 milioni di abitanti in parti sempre più animosamente avverse e immiserite materialmente e nello spirito. La forza domina ma non governa, il diritto ne è schiavo ma la sua stessa condizione la indebolisce. Delegate a esercitarne il monopolio, le forze armate sono di fatto l’elemento determinante del potere. Il presidente Nicolás Maduro le rappresenta senza tuttavia averne il pieno controllo. Questa è oggi l’istantanea del sistema istituzionale del grande paese sudamericano, il contesto dei suoi più recenti avvenimenti.
Impedito a farlo legalmente come suo diritto, Juan Guaidó, presidente dei Deputati, ne era fuggito clandestinamente con l’impegno pubblico e solenne a tornarvi sabato 23 febbraio scorso. Portando con sè le tonnellate di cibo e medicinali trasportati dagli Stati Uniti con un ponte aereo a Cúcuta, sul versante colombiano della frontiera occidentale. Avvertito pubblicamente e solennemente che al rientro avrebbe potuto essere arrestato (da Maduro in persona, in un’intervista alla catena televisiva statunitense ABCNews), vi ha fatto ritorno dieci giorni più tardi con un solo e piccolo bagaglio a mano. Ha viaggiato però su un aereo di linea atterrato a Maiquetía normalmente e come un passeggero qualsiasi si è presentato al controllo passaporti, che ha superato senza il minor problema. Incontrando nell’aerostazione stessa una delegazione di diplomatici europei accreditata presso il governo andata non a caso ad attenderlo. E subito dopo, in una piazza sul cammino alla sua abitazione privata, una folla di sostenitori.
Né lui è tornato nella data e con gli aiuti promessi, né Maduro ha osato farlo arrestare all’arrivo, come aveva minacciato. Ecco l’immagine plastica delle loro rispettive impotenze, sia pur relative. Dunque dell’ineludibilità di una trattativa in grado di superarle, per impervia che risulti a causa delle reciproche e tutt’altro che ingiustificate diffidenze. Malgrado i lutti e gli odi sedimentati. Malgrado le centinaia di morti caduti nei periodici scontri di strada provocati da entrambe le parti, dentro e ben più frequentemente fuori d’ogni legalità. Malgrado i numerosi detenuti politici senza giusto processo. Malgrado le enormi e crescenti sofferenze della maggior parte dei venezuelani, soprattutto -come sempre- dei più deboli e necessitati. Malgrado non le responsabilità storiche, della formazione sociale e del modello di sviluppo viziato dalla monocultura petrolifera, che queste sono precedenti a quelle dell’attuale politica; bensì le odierne, drammatiche conseguenze dei vent’anni di potere chavista. Sebbene non sia così semplice separare nettamente le une dalle altre. Poiché comunque l’alternativa di uno scontro armato anche solo parzialmente generalizzato sarebbe ben più tragica e difficile da ricomporre della somma di tutto quanto già accaduto.
La consapevolezza che la crisi è giunta sull’estremo ciglio del baratro e qui e là accenna a franare, sembra aver per fortuna compiuto passi avanti. Inducendo se non tutte quanto meno molte e le maggiori delle parti coinvolte a una pausa di cautela. Il tempo delle sfide temerarie è scaduto. Il prossimo prevede il corpo a corpo, l’assalto alla baionetta. Visto che le pur numerose ma tutto sommato isolate diserzioni sembrano aver scalfito appena superficialmente l’appoggio dei militari a Maduro. Il rientro non traumatico di Guaidó, tutt’altro che scontato; la scelta del Dipartimento di Stato americano a mantenersi discretamente assente dalla delegazione diplomatica accorsa all’aeroporto, per ricevere e garantire l’incolumità del presidente dell’Assemblea Legislativa; l’attenta misura anche protocollare con cui -ad eccezione di Colombia e Paraguay- i governi sudamericani che pur lo sostengono hanno ricevuto nei giorni scorsi il capo dell’opposizione venezuelana, lasciano intravvedere una circospezione spiegabile soltanto con la preoccupazione del peggio e perciò di non pregiudicare possibili spazi negoziali.
La percezione dello stato di cose sembra cambiata. Gli aiuti Usaid restano accatastati oltre frontiera e la loro sola custodia già pone problemi. Presentati come il grimaldello capace di far saltare il dispositivo che protegge Maduro, ora appaiono invece un possibile oggetto di scambio. I governi statunitense, sudamericani ed europei, chi più chi meno, l’informazione internazionale quasi per intero, avevano chiuso gli occhi per non vedere i rischi e le violazioni del diritto che accompagnavano le tonnellate di alimenti e farmaci. L’idea inespressa ma trasparente era che la soddisfazione di bisogni popolari immediati le avrebbe rilegittimate. Non importava l’incongruenza e la debolezza d’un argomentare tipicamente populista. L’ingerenza della Casa Bianca, passata dalle soffocanti sanzioni economico-commerciali all’aperta minaccia d’intervento militare, era un prezzo da pagare alla real-politik. Le violazioni di Maduro alla Costituzione e contro i suoi propri concittadini o una enorme parte di essi, venivano ritenute più gravi di quelle compiute da Trump a danno del principio di non intromissione nelle questioni interne di un paese sovrano.
In politica, però, i miracoli sono rari e i rapporti reali di forza difficili da eludere. Al Congresso di Washington, Donald Trump non controlla più la Camera dei rappresentanti. Per la sua naturale disponibilità all’avventura è un limite forte. Che pesa anche sugli atteggiamenti degli alleati europei, più d’uno dei quali vi si è lasciato trascinare con qualche riluttanza. E perfino quelli sudamericani ideologicamente a lui più affini, Brasile e Colombia in testa, hanno preso atto che gli aiuti come ariete non sono serviti a sfondare e che costringere Maduro alla resa è più difficile di quanto avessero creduto. Fin dall’indomani del fallito tentativo di travolgere con i soccorsi il governo Maduro, i presidenti sudamericani riuniti a Bogotà con Guaidó hanno lasciato gentilmente cadere la sua richiesta di sostenerlo anche militarmente. Lo stesso segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), Luis Almagro, da tempo tra gli avversari più intransigenti di Maduro, non esclude il ricorso al negoziato.
La complessità della crisi venezuelana è data anche dalla sua dimensione strategica, sostanziata da fattori concreti e rilevanti. E’ uno dei teatri su cui si gioca la lotta per l’egemonia mondiale tra Washington e Pechino. Fors’anche ingigantito dalla retorica che la integra, in ogni caso di primaria importanza. La capacità delle sue riserve petrolifere viene adesso stimata intorno ai 300 miliardi di barili. Considerata pertanto la maggiore al mondo, sebbene fino a non molto tempo prima della crisi il primato fosse notoriamente attribuito all’Arabia Saudita, tanto che molti parlavano (e scrivevano) di una Venezuela Saudita, per magnificarne la ricchezza. La sua eccezionale disponibilità di materie prime non è del resto limitata agli idrocarburi; dall’oro al cadmio, al ferro, al cobalto, a nuovi e richiestissimi minerali indispensabili alla fabbricazione delle tecnologie di telecomunicazione e satelliti artificiali, il suo sottosuolo è una cornucopia a cui guardano da tempo i grandi interessi finanziari mondiali, che dispongono dei capitali necessari per estrarli, raffinarli e portarli sui mercati di consumo.
Cina e Russia sono tra questi. Da una dozzina d’anni sono divenuti i massimi clienti e creditori del Venezuela. Chavez e Maduro li hanno preferiti per crearsi un’alternativa alla dominanza USA. Nel commercio si fa (tempi e personaggi sono altri, ma ricordiamo come Enrico Mattei creò l’ENI). Ora il debito venezuelano nei confronti di Pechino supererebbe i 20 miliardi di dollari, quello verso Mosca non sarebbe inferiore ai 12. lI loro interesse a tenere in piedi il regime chavista ha affrontato quelli opposti degli Stati Uniti e dei suoi alleati alla Nazioni Unite. Nel Consiglio di Sicurezza il potere di veto di Russia e Cina (seguite da altre potenze asiatiche) ha creato una situazione di stallo che contribuisce a mantenere l’instabile statu quo, senza indicare una fuoriuscita dalla crisi. E’ un momento particolare, di riflessione e calcolo: gli alti comandi militari venezuelani svolgono consultazioni internazionali non contrarie ma autonome rispetto a Maduro; Guaidó deve guardarsi dalla permanente e ora rinnovata concorrenza dei capi più anziani dell’eterogeneo fronte delle opposizioni, dagli Henrique Caprile, Antonio Ledezma, Leopoldo Suarez, e per farlo deve ritrovare l’iniziativa. Non è facile, tant’è che s’è preso altre due settimane per tornare in piazza. Il momento è a favore d’una estrema trattativa.
Livio Zanotti