L’attonito day-after del presidente Macri, in Argentina e fuori

Operatori di borsa davanti allo schermo con i valori della giornata.
Operatori di borsa davanti allo schermo con i valori della giornata.

Quando il pensiero si congela nel dogma, gli esiti dell’azione che ha generato vanno oltre ogni sua capacità di previsione e lo precipitano nello sperdimento. Nel lunedì nero più nero della storia argentina, sconfitto da un voto bruciante che ha acceso la speculazione finanziaria con colpi di mercato e nuovi vortici inflazionari, il presidente Mauricio Macri, scuro in volto e la voce agra, ha negato la virulenta evidenza della crisi affermando: ”l’impeto peronista perderà forza; e vincendo noi le prossime elezioni d’ottobre la crisi economica si risolverà, con l’aiuto del mondo…”. Una espressione di fede definita “surreale” da più d’uno di quegli stessi commentatori televisivi che nei quasi quattro anni di governo ne hanno sostenuto la politica, con la giustificazione che i precedenti governi Kirchner erano stati anche peggiori.

Un riflesso di questo torbido fatalismo storico fatto proprio dalla grande informazione locale, non ha risparmiato neppure autorevoli giornali di Roma, Londra e con minore esplicitezza Madrid. Forse per la suggestione di qualche analogia con le involuzioni politico-istituzionali italiane ed europee. Nodi drammaticamente complessi e nondimeno ben identificati nelle scelte pregiudiziali che hanno provocato questo capovolgimento politico-economico argentino, vi appaiono convenzionalizzati nelle uguaglianze “Cristina = corruzione”, “peronismo = sovranismo”. Cioè ridotti al codice degli slogan usato dal macrismo per eludere un’analisi socio-economica minimamente approfondita del mancato sviluppo argentino nel secolo passato e delle sue attuali emergenze. Come se il ricorso stanco e fraudolento a usurati cliché non fosse tra i dati condannati dal voto di domenica scorsa.

“Più che l’amore, a unirci è la paura”, fu l’ammonimento con cui Borges trasmise il proprio scetticismo ai concittadini. Ma perfino lui, elitista per il gusto della provocazione e antiperonista viscerale per irreprimibile istinto, converrebbe che stavolta ad aver impaurito gli argentini sono stati Macri e i risultati del macrismo. Sottovalutati solo da quanti non osservano l’Argentina reale: quaranta milioni e passa di persone con alto tasso d’istruzione, una società evoluta attraverso esperienze traumatiche che hanno forgiato la sua capacità di reazione. Preferendo fissarsi autisticamente su un’immagine teorica del paese disegnata in qualche ufficio-studi o fondazione, disincarnata della sua popolazione reale, che vuole mangiare, studiare, lavorare, produrre partecipando dignitosamente agli utili.

Alla Borsa di Buenos Aires, l’indice Merval ha sommato perdite del 40 per cento, con punte del 60 (nel 2002, l’anno tragico del default, furono tra il 45 e l’80%). Il dollaro vola verso i 60 pesos, con una perdita del 21 per cento per la moneta nazionale. I buoni del Tesoro che la settimana scorsa pagavano interessi del 65 per cento, oggi pagano il 75. Vuol dire che molti risparmiatori vendono per garantirsi con l’acquisto di valute forti (anche euro, pur in misura molto minore). E quelli che non lo fanno chiedono interessi sempre più alti. Così aumenta ogni giorno il costo della vita. Mentre oltre la metà degli argentini non hanno niente da vendere, vivono nella povertà, il 10 percento dei loro bambini soffre la fame. Non c’è nessun folclore nel dibattito su quanto potrà accadere di qui a ottobre, il 27, quando si tornerà a votare, e poi fino a dicembre, il 10, giorno in cui si insedierà il nuovo Presidente.

Livio Zanotti

Ildiavolononmuoremai.it

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