I versi evergreen di Prévert a 120 anni dalla nascita

Copertina del libro di Jaques Prévert, 'Poesie d'amore'.
Copertina del libro di Jaques Prévert, 'Poesie d'amore'. (ANSA)

ROMA. – Intellettuale poliedrico e quindi modernissimo, Jacques Prevert, scomparso nel 1977 di cui il 4 febbraio si contano 120 anni dalla nascita, fu innanzitutto poeta, molto popolare ma anche amato da grandi letterati; autore di versi che musicati sono divenuti canzoni intense e indimenticabili grazie a interpreti come Juliette Greco o Gilbert Bécaud e basti ricordare ”Les feuilles mortes” (Le foglie morte); sceneggiatore che collaborò con J. Renoir, A. Cayatte, C. Autant-Lara e soprattutto con Marcel Carné firmando ”Quai des brumes” e ”Les enfants du paradis” per citare titoli che hanno fatto storia; artista creatore di apprezzati collages, ma anche, agli inizi, negli anni ’30, drammaturgo impegnato.

Insomma vero uomo del XX secolo, nato appunto il 4 febbraio del 1900, aderì al surrealismo (1926-30), ma se ne distaccò, senza mai rinnegarlo, per tentare esperienze letterarie personali, segnate dal gusto per le divagazioni eleganti e lievemente paradossali, impegnate, ma con un velo di malinconia e ironia.

Se negli anni ’30 lavora molto per il teatro, scrivendo ”La bataille de Fontenay” col Gruppo Ottobre di Teatro operaio per cui scrive anche l’inno ”Marche ou crève” (marciare o morire) che ebbe fortuna anche in Italia, è nel 1946, quando esce il suo volume di poesie ”Paroles”, che il suo nome acquista rilievo e riceve riconoscimenti da un premio Nobel, Saint-John Perse, e dal padre del surrealismo, André Breton, che lo definì ”sognatore impenitente”, capace ”di svelare, in un lampo, tutte le sensazioni possibili”, tanto che il pubblico esaurì subito la prima edizione di quello che in breve divenne il primo best seller internazionale di poesia.

Eppure la sua versatilità, quella sua immediatezza scambiata per facilità superficiale che ne fece subito un poeta famoso come un cantante, lo fecero guardare a lungo con sospetto dalla cultura ufficiale. riserve che possiamo dire caddero davvero solo dopo la sua morte, quando nel 1992 venne accostato ai grandi classici della letteratura francese con la pubblicazione delle sue opere nella prestigiosa collana della Pleiade, accanto a Proust come a Queneau.

Nel 1946 era appena finita la guerra, c’era speranza e voglia di tornare a vivere, e fu più facile per i suoi amici, quelli celebri dei caffè della Rive Gauche, convincerlo a pubblicare quel primo libro, in cui rendeva l’aria del tempo con il suo voler essere tra gli uomini e interpretarne gioie e malinconie, sentimenti ”come spiccioli popolari d’esistenzialismo”.

Il suo destino è stato quello di essere il poeta degli adolescenti, degli innamorati, della poesia come gioco ironico, e basti ricordare la cantilena sui Luigi di Francia, che gli ha procurato la fortuna di essere tradotto in oltre 80 lingue, anche se oggi non vende più come un tempo, come negli anni ’80, quando le sue raccolte raggiungevano le 20 mila copie l’anno.

”La sua opera si adagia lungo il confine tra poesia compiuta e ciò che potremmo definire come ‘poetico’ – afferma Giovanni Raboni, come a definire una volta per tutte il dibattito su Prevert – E questo confine lo varca da entrambe le parti, ma quando lo fa in direzione della poesia è capace di raggiungere risultati davvero immediati e straordinari”.

A renderlo ancora vivo e fare la sua fortuna è il suo genuino anarchismo dal candore quasi fanciullesco che conquista, assieme ai versi su ”questo amore / così violento / così fragile”, usati e abusati, ma senza riuscire a far perdere loro forza comunicativa e semplice, comune verità.

L’opera poetica di Prévert ”sotto forma di evocazione collettiva, è una specie di autoritratto” soprattutto per quanto riguarda ”il senso fraterno degli incontri, l’esecrazione dell’autorità e dei dogmi e dell’indignazione a tutto campo”, ha scritto Daniele Casiglia-Laster, curatore dei volumi della Pleiade.

Il fatto è che Prévert non aveva mai rinnegato completamente il surrealismo, di cui continuava a conservare l’ immaginazione esplosiva e, nello stesso tempo, conduceva una vita ”a brigliesciolte”, come amava ripetere, aggiungendo, col suo sorriso ironico e l’eterna sigaretta in bocca: ”quando non ci sarò più, non la finiranno mai di tirar fuori idiozie e mi conosceranno meglio di me stesso”.

(di Paolo Petroni/ANSA)

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