Il ruolo della Turchia nella liberazione di Silvia Romano

Il ruolo della Turchia nella liberazione di Silvia Romano
Silvia Romano riabbraccia sua madre dopo diciotto mesi di prigionia. FOTO ISPI ONLINE

Sabato pomeriggio, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato la liberazione di Silvia Romano, cittadina italiana rapita diciotto mesi fa in Kenya. Il suo era uno dei casi più noti di rapimento di italiani all’estero. La cooperante ventiquattrenne ha passato la notte presso l’ambasciata italiana di Mogadiscio, in Somalia, ed è atterrata in Italia domenica pomeriggio a Roma.

Durante la prigionia le notizie sulle sue condizioni sono state scarse, almeno fino a novembre 2019. Dopo, non si è saputo più nulla. Lunedì mattina i quotidiani hanno pubblicato alcuni dettagli emersi dalle sue dichiarazioni ai Pubblici Ministeri circa il rapimento e gli ultimi mesi di Silvia in Africa.

L’Italia ha condotto una operazione di intelligence mirante a setacciare il territorio keniota e somalo col fine di intercettare qualche organizzazione criminale o terroristica che parlasse di Silvia. Emerge in questa vicenda anche il supporto del servizio segreto somalo e in modo ancor più evidente quello della Turchia di Erdogan, il cui ruolo è ancora da chiarire.

A questo proposito alcune domande sorgono spontanee e non riguardano, come si potrebbe intuire, l’entità del riscatto o il fantomatico “sperpero di soldi pubblici” (in Italia sono stati spesi in modo peggiore), o ancora il fatto che lei si sia convertita alla religione islamica (l’Italia è un Paese laico per costituzione e la conversione ad una fede non è affar nostro). La domanda che un buon cittadino dovrebbe porsi è il motivo per cui l’Italia ha dovuto chiedere aiuto alla Turchia in Somalia, un Paese appartenente alla nostra sfera di influenza. Scambio di favori tra intelligence, oppure c’è altro?

Dove si trovava Silvia Romano

Silvia è stata rapita il 20 novembre 2018 nel villaggio di Chakama, nel sud del Kenya, dove si trovava per conto di una Onlus italiana, precisamente marchigiana. Secondo le prime informazioni i suoi rapitori facevano parte di una banda di criminali che, dopo averla catturata, l’avrebbero venduta ad una organizzazione terroristica di matrice islamica. Si dice che la cooperante sia stata “venduta” da un conoscente che avrebbe segnalato a dei criminali la presenza di una occidentale nel villaggio.

Silvia è stata portata in Somalia, dopo un lungo viaggio nella foresta durato settimane. Il gruppo che l’ha tenuta prigioniera sarebbe quello di Al Shabaab, un noto gruppo jihadista legato ad Al Qaida che da molti anni controlla pezzi del territorio somalo, compie attacchi terroristici nella zona ed ha una lunga storia di rapimenti.

In Somalia sarebbe arrivata prima di Natale e lì sarebbe stata spostata in sei diversi nascondigli. I carcerieri erano tutti uomini, avevano sempre il capo coperto e soltanto uno di loro parlava inglese, dunque lei comunicava solo con lui. Silvia Romano avrebbe detto di aver anche imparato un po’ di arabo, di essere stata nutrita regolarmente e di essere stata “trattata bene“, cioè di non aver subito sevizie e minacce.

La trattativa è iniziata nell’estate del 2019, quando dopo un lungo silenzio i miliziani hanno contattato gli uomini dell’intelligence italiana in Somalia. Dopo alcuni mesi di negoziati, i servizi segreti nostrani si sono convinti del fatto che Silvia Romano fosse viva.

L’operazione dei servizi segreti

Alla liberazione della cooperante hanno lavorato soprattutto i funzionari dell’AISE, i servizi segreti italiani che operano all’estero. Ad assistere l’intelligence nostrana, oltre a quella somala, sono stati alcuni funzionari di quella turca.

Il negoziato è entrato nel vivo nello scorso aprile e l’AISE si è continuamente coordinata con il MIT turco nei passaggi più delicati. Le condizioni di sicurezza in Somalia sono inesistenti, poiché tra signori della guerra e milizie islamiche, il potere centrale non riesce a controllare ciò che accade nel proprio territorio. Non ci sono ancora molti dettagli sull’operazione che ha portato alla liberazione. I giornali non hanno notizie di scontri e violenze e il modo in cui ne scrivono fa pensare al fatto che si sia trattato di uno scambio. Non c’è ancora una cifra precisa. Si è parlato subito di quattro milioni di euro, poi di un milione e mezzo. Infine si è anche ipotizzato che colui il quale avrebbe comunicato la posizione di Silvia Romano abbia ricevuto una ricompensa di duecentomila dollari.

Le informazioni sono ancora molto frammentarie ma il punto focale della vicenda per l’opinione pubblica italiana sono stati il riscatto e la conversione volontaria alla religione islamica. Tralasciando quest’ultimo discorso, che in uno stato laico non dovrebbe nemmeno esistere, la questione del riscatto è quella che meriterebbe una narrazione scevra di pregiudizi e condizionamenti di sorta.

La questione del riscatto

Formalmente pagare i riscatti ai terroristi è vietato a livello internazionale a causa di una risoluzione approvata dall’ONU dopo l’11 settembre. A questo proposito c’è anche un accordo firmato dal G8 per fermare un “circolo vizioso“, che serve ad Al Qaeda per finanziare la propria attività. Nella realtà le cose vanno diversamente: nessuno lo ammette ma quasi tutti pagano.

Secondo fonti del Geneva Centre, che si occupa di terrorismo, Al Qaeda “targettizza” i rapimenti in base alla nazionalità. Francesi, austriaci, spagnoli e svizzeri sono i più ricercati perché solitamente vengono riportati a casa in cambio di ingenti somme. Stati Uniti e Inghilterra, invece, preferiscono non pagare ma, essendo quelli più coinvolti nella lotta al terrorismo, basano le proprie trattative sullo scambio di prigionieri. Altre fonti, invece, raccontano che questi lasciano che siano altri soggetti ad occuparsi della liberazione al posto loro, per una questione di opinione pubblica. Infatti un ostaggio ucciso, magari con un video diffuso su internet che sottolinea come l’occidente non abbia fatto nulla, è un punto di partenza per una crisi di governo e di immagine.

Non sono pochi i casi in cui l’Italia si è addossata la responsabilità di liberare un ostaggio inglese e americano. Al contrario, in alcuni casi l’intervento delle forze speciali sono costati la morte di due ostaggi italiani: Giovanni Lo Porto e Franco Lamolinara. Il primo è stato ucciso da un drone americano, il secondo da un blitz delle forze speciali inglesi che informarono lo stato italiano solo a cose fatte.

Durante la guerra del terrore in Iraq, l’uccisione degli ostaggi era quasi certa. Poi una volta che alcuni governi hanno iniziato a trattare, a causa della pressione mediatica provocata dalla morte dei soldati, l’opportunità di scambiare dei prigionieri in cambio di denaro è diventata una possibilità.

I riscatti in genere vengono pagati attraverso “fondi speciali” che finiscono sotto la voce degli “aiuti umanitari” o quella della “condivisione di strutture e operazioni di intelligence“.

Secondo gli americani, è il Qatar a svolgere al giorno d’oggi un rilevante ruolo di mediazione. Spesso i loro diplomatici ricevono pubblicamente ostaggi liberati. Anche nel caso di Silvia Romano si dice che sia stato proprio l’emirato a svolgere un ruolo chiave nella mediazione, poiché è lì che molto probabilmente sarebbe arrivata l’ultima “testimonianza”. Ovviamente, in assenza di prove ufficiali, queste sono soltanto delle mere ipotesi.

Un ruolo decisivo, e confermato, invece è stato svolto dalla Turchia. Ed è solo e soltanto in questo frangente che le voci dissidenti avrebbero dovuto farsi sentire. La Somalia è un Paese con cui l’Italia vanterebbe una stretta amicizia e dove coltiva interessi geopolitici ed economici. Perché si è sentito il bisogno di rivolgersi ad un servizio di intelligence “terzo” come quello turco, senza considerare che Erdogan è uno degli antagonisti degli interessi italici nel Mediterraneo e nel Corno d’Africa?

Il rapporto tra Italia e Somalia, il ruolo della Turchia e una politica estera inesistente

Il rapporto dell’Italia con la Somalia rappresenta ancora oggi un elemento delicato sotto il profilo storico e geopolitico. Innanzitutto, tale sensibilità deriva dalla particolare situazione istituzionale vissuta dal Paese, al centro di un collasso che ha generato il primo stato fallito dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Il rapporto italo-somalo nasce verso la metà dell’Ottocento, nel tentativo di dare vita ad un sistema coloniale voluto dal governo di Luigi Federico Manabrea. Nel 1869 il Regno d’Italia originò il primo insediamento nell’Africa Orientale, in Eritrea, e da allora cominciarono a proliferare accordi, trattati e protettorati. Si poneva in tal modo una premessa per la penetrazione coloniale italiana in Somalia, costruita da una parte sul presupposto di interessi politici e commerciali, dall’altro sull’interesse all’espansione territoriale dei diversi sultanati locali in contrasto tra di loro.

Il progetto di Menabrea avrebbe dovuto sviluppare una rete di interessi commerciali connesse alle principali rotte di interscambio marino, soprattutto alla luce dell’apertura del Canale di Suez che potenziava il ruolo del Mediterraneo e dell’Italia. Inizialmente si trattava di acquistare dei porti da dove gestire il traffico marittimo. L’attenzione per l’entroterra era scarsa se non per fini meramente difensivi. Soltanto nel secolo successivo, l’interesse per le aree interne del Corno d’Africa aumentò considerevolmente.

Le colonie nell’idea politica dei governanti avrebbero dovuto rappresentare la soluzione dei gravi problemi socioeconomici e occupazionali post-Unità. La crisi del settore agricolo, provocata dall’introduzione sui mercati europei dei cereali americani, colpì duramente l’Italia di fine Ottocento provocando uno spopolamento che interessò soprattutto il Sud.

Dunque, la politica coloniale venne concepita dapprima come attività economica. L’idea era quella di trasformare le colonie in un progetto di sviluppo volto ad alleviare i problemi dello stato unitario attraverso la massiccia emigrazione di coloni italiani. In quest’ottica le diverse amministrazioni ottennero lo sviluppo di ingenti infrastrutture non motivate dai ritorni economici, peraltro esigui, ma dalla volontà di dare alle masse di emigranti una valida alternativa alle Americhe. Ciò non significa che il colonialismo italiano fu “generoso” nei confronti delle comunità autoctone, poiché le nefandezze compiute nei loro confronti furono veri e propri crimini umanitari.

Il Paese investì enormi risorse in Africa e ciò fu fatto a solo beneficio delle comunità italiane in previsione di una loro prolungata permanenza. Anche in Somalia, soprattutto nella zona della capitale Mogadiscio, gli italiani costruirono una mole impressionante di infrastrutture.

Il rapporto post-coloniale con la Somalia, dunque, si fonda sulle ceneri di quell’Impero di argilla che Benito Mussolini aveva cercato di affermare attraverso la propaganda di regime. Dopo la guerra, l’Italia riuscì ad ottenere dall’ONU un mandato fiduciario decennale sulla Somalia.

Ancora oggi questa esperienza è fonte di diverse interpretazioni. Il dibattito si è polarizzato su numerose posizioni che hanno inciso profondamente anche sull’immagine dell’esperienza coloniale italiana.

L’amministrazione fiduciaria italiana, in sostanza, è stata un tentativo di costruire e di esercitare un potere di indirizzo nei confronti della giovane repubblica somala. Se all’Italia va riconosciuto di aver investito ingenti risorse umane e materiali per dotare la Somalia degli strumenti necessari a gestire l’indipendenza, non può essere nascosto che gli stessi non hanno per niente tenuto conto della particolarità politica e sociale di quella realtà.

Un sistema politico compatibile con quello occidentale, favorito da un rapporto privilegiato con lo stivale attraverso la formazione di una classe dirigente organizzata su questa base ma lontanissima dal modello definito dalla cultura tradizionale locale, composto da clan e strutture decisionali meno libere ma funzionali. La democrazia è durata a malapena dieci anni ed è terminata con un golpe militare.

L’Italia, dal canto suo, non seppe cogliere i segnali della crisi politica somala all’indomani dell’indipendenza, così come non riuscì ad arginare la corruzione istituzionale. Dopo il golpe, l’Italia stabilì un buon rapporto con Siad Barre. Il dittatore restò funzionale agli interessi geopolitici ed economici dell’Italia, in una spirale sempre più torbida che non tardò a sfociare nell’illecito di affari gestiti dalla malavita e nello sfruttamento imprenditoriale.

In quel periodo gli affari dell’Italia si concentravano nella produzione agricola, nell’allevamento e nella pesca, con una sporadica fase d’interesse per il settore minerario e degli idrocarburi. Nel periodo 1980-81 quasi 1.000 miliardi di lire vennero investiti nella realizzazione di infrastrutture e produzioni intensive, sacrificando interessi di lungo periodo, come la cooperazione universitaria, con benefici economici singolari e immediati.

L’Italia venne travolta dal collasso del regime e dalle faide interne alle forze rivoluzionarie. Non riuscendo a prendere una posizione, l’uscita di scena fu dolorosa, come dimostrano le morti di alcuni connazionali. Non meno tragica fu la nostra partecipazione alla missione umanitaria dell’ONU “Restore Hope” del 1992-93. Gli stati coinvolti non vedevano di buon occhio il ritorno dell’Italia nella Somalia al collasso, ritenendoci fortemente compromessi con tutte le parti in conflitto. Ciononostante, lo stivale dispiegò comunque un grande contingente militare.

La crisi somala entrò nel vivo quando gli Stati Uniti ingaggiarono una lotta senza quartiere contro Farah Aidid, ritenuto l’artefice dell’instabilità locale, sospettando l’Italia di essere collusa con il suo clan e le sue milizie. Il bilancio dell’operazione in Somalia si concluse con un grande fallimento, poiché si palesarono tutte le controversie del nostro rapporto con le differenti parti in lotta.

Nel 2006 ascesero al potere le Corti islamiche, le quali fecero conoscere al mondo le milizie di Al-Shabab. Da allora la lotta tra il potere centralizzato, le milizie e i signori della guerra visse fasi alterne. La comunità internazionale pose la sua attenzione sul caso somalo soltanto per impedire la proliferazione della pirateria, nociva per gli scambi energetici.

Il collasso istituzionale ha totalmente sgretolato i rapporti tra Italia e Somalia. Non si tratta più di un rapporto privilegiato ma di una semplice e generica operazione che riguarda aiuti umanitari e addestramento del personale di polizia. L’oblio in cui sguazza la nostra politica estera, ormai inesistente, ha spianato la strada alla “strategia africana” di Turchia e delle monarchie del golfo.

In particolare Erdogan ha sviluppato i suoi interessi africani attorno alla politica del “grande abbraccio islamico“. Addirittura, il Ministro degli Esteri somalo ha definito la Turchia come “il miglior amico del Paese“.

La presenza turca in Somalia si è sviluppata nell’ultimo decennio. Dal 2011 Erdogan è visto come un salvatore. Quando l’Europa voltò le spalle alla grande carestia che colpì il Paese nello stesso anno, il Presidente turco portò personalmente una mole impressionante di aiuti, senza contare i milioni di dollari investiti un po’ ovunque nel Paese.

Come detto, la visione geopolitica turca è quella di mettere le mani sugli oltre 10 miliardi di barili di petrolio che Mogadiscio può offrire. Lo scorso gennaio Erdogan ha accettato l’invito del Ministro degli esteri di iniziare l’esplorazione dei pozzi petroliferi.

La posizione strategica del Paese, come punto di accesso al Mar Rosso e al Golfo di Aden, ha spinto Erdogan ad osare e a puntare gli occhi anche su altri Paesi della zona, come il Sudan. Una sorta di “African Policy” mirante a ristabilire i legami con gli stati che hanno costituito l’ossatura dell’Impero Ottomano.

Un passaggio obbligato e una triste realtà

Negli ultimi anni la Turchia ha rafforzato la propria presenza nel Corno d’Africa ed è diventato il principale interlocutore della zona, investendo con tenacia e spregiudicatezza in ogni settore. Anche nel caso dell’emergenza da nuovo coronavirus, è stato Erdogan ad inviare gli aiuti sanitari.

La situazione somala assomiglia sempre di più a quella libica. La posizione dell’Italia tenuta nel Paese, fino alla caduta di Barre nel 1991, è pressoché identica a quella libica, fino alla morte di Gheddafi. Un’assenza, diventata cronica a causa di una fallace strategia e rimpiazzata da un altro stato, la Turchia, più deciso ad impegnarsi e desideroso di imporsi come attore energetico nel Mediterraneo e in Africa.

La Turchia pronta ad aiutarci in Somalia è la stessa che in Libia ci ha sostituto nel sostenere il governo legittimo e che al largo di Cipro blocca le navi dell’ENI impegnate nell’esplorazioni petrolifere. Queste cose c’entrano poco con Silvia Romano ma è come se l’intervento di Ankara sia la dimostrazione che “l’Italia abbia fatto il suo tempo“. Un campanello d’allarme.

Dunque, non dovrebbe stupire il ruolo di primo piano di Ankara nella liberazione di Silvia Romano. La Turchia, senza che noi ce ne accorgessimo, è diventato l’attore più presente in Somalia. É indubbio che la profonda conoscenza del contesto e la migliore rete di connessione con le parti locali del MIT abbiano facilitato il processo negoziale con i terroristi. Addirittura alcune fonti parlano anche di una possibile collusione tra i terroristi e il regime di Erdogan, basandosi su articoli e inchieste di noti giornalisti turchi.

L’intervento turco ha scoperchiato un “vaso di Pandora” diplomatico ma saranno soltanto in pochi ad accorgersene, dato che l’intera opinione pubblica si è concentrata su un abito e su una conversione religiosa di una ragazza tenuta prigioniera. Con questi italiani in prima linea, la Turchia può dormire sonni tranquilli.

Donatello D’Andrea