Lotta contro gli incendi: il monaco paladino del “Laudato si'”

l'eremo di Sant'Ilarione di Gaza, a San Nicola di Caulonia (Reggio Calabria)
L'eremo di Sant'Ilarione di Gaza, a San Nicola di Caulonia (Reggio Calabria). (Foto Tripadvisor)

CAULONIA. – I fichidindia sono carichi di frutti, le piante d’agave costellano la strada sterrata. Intorno c’è la montagna aspra della Locride, a tratti inaccessibile. E’ qui che padre Frederic Vermorel ha deciso di mettere le sue nuove radici: dalla Francia alla Calabria, dalle aule della prestigiosa università parigina di Sciences Po al silenzio dell’eremo dove prega e accoglie chiunque voglia condividere con lui un pezzo di cammino.

Il monaco francese da diciotto anni custodisce l’eremo di Sant’Ilarione di Gaza, a San Nicola di Caulonia (Reggio Calabria). “La fuga dal mondo è fuga dalla mondanità, non dai dolori e dalle gioie dell’uomo, e quest’eremo è come la cassa di risonanza di una chitarra, qui i dolori del mondo si amplificano”, dice all’ANSA il frate che non solo ha scelto di custodire un luogo santo ma anche la natura nella quale è situato. Per gli abitanti del borgo, a ottocento metri dalla sua rocca solitaria, ha fatto battaglie contro gli incendi e contro l’inquinamento del fiume.

“Qui basta un niente per mandare tutto in fumo”, dice mostrando la natura spigolosa ma carica di verde delle montagne calabresi. “Una bellezza che mi ha fatto battere il cuore non appena sono arrivato e che va preservata” dice quello che l’ex vescovo di Locri, monsignor Giancarlo Maria Bregantini (ora titolare della diocesi di Campobasso), che gli affidò il sito facendolo monaco diocesano, definisce “il paladino della Laudato si'”.

I canadair che sorvolano l’Italia cercando di strappare le bellezze dei boschi alla sciagura dei roghi, hanno volato in questi giorni anche sulla vallata calabrese dove c’è la rocca custodita da padre Frederic. Dappertutto ci sono cartelli che invitano a non accendere falò o barbecue.

“Una volta mi fermarono in paese chiedendomi: ma è vero che cacci la gente a secchiate d’acqua? Non capivo. Poi mi è venuto in mente che qualche giorno prima dalla finestra della mia stanza avevo visto una famiglia che aveva acceso il fuoco per fare il picnic. Ma qui non è possibile, basta niente per distruggere tutto. Ho preso un secchio d’acqua dal fiume e sono andato da loro spiegandogli che il fuoco non si poteva accendere e ho porto loro il secchio per spegnerlo”.

Sorride a quel ricordo che lo aveva trasformato, agli occhi di alcuni paesani, in un misantropo. Lui che invece ha la porta sempre aperta a chiunque passi di lì. Anche a persone legate alla ‘ndrangheta? chiediamo. “Non che io sappia”, risponde. Perché lui apre la porta senza chiedere chi sei e perché sei lì. Solo la pandemia lo ha reso più solo. “Per mesi non è venuto nessuno, non era mai successo in questi diciotto anni”.

Ma comunque “ho continuato a fare le mie passeggiate nei boschi, come sempre, senza mascherina perché non c’era nessuno da cui proteggersi: io e la natura di questi posti, io e questa bellezza. Dite che è una natura ostile? Io la trovo invece accogliente”.

Ed è per questo che preserva la ‘sua’ terra ancora in gran parte incontaminata. Anche con vere e proprie ‘battaglie’ se è necessario: “Credo molto nella valenza ‘politica’ della vita eremitica”, scrive infatti nel suo libro-diario appena pubblicato da Edizioni Terra Santa. Il caldo non dà tregua, si respira solo tra le spesse mura della chiesetta in cima all’eremo. “Chiudete la porta, in chiesa può entrare chiunque ma il caldo preferisco lasciarlo fuori”.

Eppure queste temperature possono essere anche motivo di nostalgia. “Dopo aver vissuto un periodo in Sicilia sono andato in Belgio a studiare teologia. Ma mi mancava l’Italia, il Sud, il sole”, racconta. Quindi l’incontro con il vescovo Bregantini che attraverso lui ha fatto rivivere l’eremo da decenni abbandonato.

(di Manuela Tulli/ANSA)

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