E se prima di pensare a colonizzare Marte pensassimo al nostro Pianeta?

Nella scena finale dello splendido “Don’t look up”, vediamo che dopo cinquemila anni di ibernazione, le élite della terra, scappate dalla distruzione del pianeta, escono dall’astronave, interamente nude, e mettono piede su un mondo colorato popolato da animali bizzarri. Si trattava di poche centinaia di persone, di mezza età o poco oltre, con la pelle bianca e la pancia prominente, naturalmente appartenenti alle classi dirigenti americane, tutti ricchi sfondati. Adam Mc Kay, autore e regista, non è stato tenero con le élite, le ha dipinte come una banda di bestie ignoranti, egoiste, frivole e superficiali, ma forse non è andato tanto lontano dalla realtà che vede Elon Musk preparare la colonizzazione di Marte (o altre cose che non dice) e non di certo per scopi umanitari.

Nel film la minaccia è un asteroide, cosa non impossibile, ma rimane un film e, sebbene ritragga con ironico realismo il comportamento dei politici e degli imprenditori, non tiene conto di altre realtà, molto più vicine dell’asteroide, che stanno minacciando di distruggere la Terra e l’umanità intera.

Non occorre un regista visionario per fare un elenco di problemi da risolvere, direi anche urgentemente, e se Greta Thundberg (e altri attivisti di cui si parla meno) ha messo in moto una dinamica che merita rispetto, mettendo l’accento su problemi per i quali i governi sembra non vogliano trovare soluzioni, dovremmo quantomeno avviare dibattiti seri e fare, tutti nelle nostre possibilità, qualcosa di utile, anche se piccolo, ma di utile per l’umanità.

Si potrebbe dire che chiudere il rubinetto quando ci si spazzola i denti è poca cosa, ma è pur sempre qualcosa; si può anche obiettare che pur se facciamo la differenziata poi succede che, visti i pochi mezzi a disposizione per lo smaltimento, mischiano tutto, ma intanto noi facciamola, perché la civiltà comincia dai nostri piccoli gesti. E così via.

Ma pensando a soluzioni più a livello sistema o a livello globale, dovremmo renderci conto che i passi fatti di recente (il PNRR, pur se dettato da impellenti necessità, e il Next Generation Europe, che legano l’erogazione di fondi anche a una strategia ambientale comune a tutti i paesi dell’Unione) sono un segnale chiaro che indica il cammino da seguire a livello macroscopico, che poi deve essere declinato a livello locale attraverso programmi e progetti che riducano la nostra impronta. Ma attenzione, è proprio a livello locale (o nazionale) che vengono fuori i provincialismi più beceri o i nazionalismi retrogradi.

Ma veniamo alla visione d’insieme: alcuni di questi obiettivi sono vincolati al 2035, anno in cui non si venderanno più automobili diesel o benzina, ed è un obiettivo assai ambizioso. Parlo di questo perché è il programma più vicino a noi, dal momento in cui quasi tutti abbiamo un’automobile.

La domanda sarebbe: sarà tutto elettrico o esisterà ancora il motore a combustione interna?

Non esiterei a pensare che, se ci si convertisse al biocarburante o all’idrogeno, probabilmente il motore a combustione interna esisterà ancora, rendendo più gestibile la transizione. Il biocarburante può essere ricavato da oli di scarto, dalla colza e roba simile, di fatto non occorre una raffineria per produrlo e, se parliamo di oli di scarto, consente il recupero di residui altrimenti inquinanti. L’idrogeno, invece, sarebbe la soluzione migliore, dato che si tratta dell’elemento maggiormente presente nel nostro ecosistema e dato che, per bruciare, si mischia con ossigeno e (semplificando) da scappamenti e ciminiere uscirebbe vapore acqueo; ma l’idrogeno ha problemi di stoccaggio e non sarà facile proporne l’utilizzo per la locomozione di massa (certo, per gli aerei e per le navi sarebbe una soluzione perfetta, già Airbus sta collaudando con successo aerei alimentati a idrogeno).

Perché parlo di combustione interna quando già ci si sta convertendo alla locomozione elettrica? Semplice: perché produrre elettricità costa molto, e può essere assai inquinante.

Ma non solo: vediamo oggi che per produrre elettricità occorre comprare (e bruciare) gas, e ben venga, dato che è molto meno inquinante del carbone o del petrolio, ma la totale dipendenza dell’Europa dalle forniture estere (Russia, Azerbaijan, Algeria e ora Qatar) può diventare un problema nel momento in cui, lo vediamo in questi giorni, i fornitori decidono di chiudere i rubinetti.

Quindi abbiamo due problemi: 1) produrre energia, possibilmente pulita e 2) gestire una transizione tecnologica verso modelli di locomozione ecologici.

Il primo dei due problemi può essere affrontato incrementando per quanto possibile la produzione d’energia tramite l’eolico o il solare, ma poi sorge il problema del paesaggio, perché deturpare luoghi meravigliosi ucciderebbe non solo la bellezza, ma il settore del turismo. E poi addio biodiversità, per cui anche il settore agricolo andrebbe a farsi benedire e il danno per l’ecosistema sarebbe enorme. Mettere pannelli solari su tutte le case? Sarebbe già qualcosa ma temo che non sia sufficiente (però lasciamo che siano gli esperti a dirlo). E poi avremo il problema della fornitura del materiale e dello smaltimento dei pannelli arrivati a fine vita, e si tratta di roba altamente inquinante. Quindi occorre trovare la quadra e intervenire, dove si può, con altre soluzioni. E qui qualcuno paventa un ritorno al nucleare. Certo, anch’io votai NO al referendum del 1987, lo feci con convinzione e ancora credo che si debba trovare qualche alternativa più rassicurante, ma il danno ambientale derivante dall’uso di petrolio, carbone e gas ad oggi probabilmente non giustifica un’opposizione netta, soprattutto se consideriamo che la tecnologia non è quella di quattro decenni fa.

Ora, il problema del fabbisogno di energia si acutizza se tutta la locomozione diventa elettrica, quindi la domanda è: se utilizzassimo anche biocombustibili e idrogeno, questo problema diventa gestibile?

Non ho la risposta, ma se dobbiamo smettere di bruciare combustibili fossili, forse non dobbiamo cercare una sola alternativa, ma lavorare per una soluzione integrata che contenga un mix di soluzioni, e lavorare senza pregiudizi e senza appellarsi a ridicole ideologie, e soprattutto capire che non dobbiamo avere frontiere e, magari, creare una rete intereuropea, perché i regionalismi, oggi, non hanno (e non danno) futuro.

Claudio Fiorentini